……Del resto anche prima del ’59 e della guerra le ricerche puramente tecniche avevano occupato i migliori artisti fiorentini e li avevano raccolti in quel gruppo feroce per la sua intransigenza e ammirevole per la sua abnegazione e la sua alacrità, che restò noto sotto il nome di macchiaioli. Pei macchiaioli, macchia non ebbe il significato corrente di abbozzo, ma piuttosto quello che molto più tardi, quando vennero di moda in Italia gl’impressionisti di Francia, ebbe la parola impressione. I primi a predicar che la macchia era il fondamento della pittura furono Domenico Morelli, Saverio Altamura e Serafino Tivoli quando all’esposizione di Parigi del 1855 si accorsero – son parole del Signorini – difetto capitale dell’arte italiana ufficiale e accademica essere la mancanza di solidità e la deficenza di chiaroscuro, e tornando si fermarono a Firenze e spiegarono le loro critiche in quel famoso Caffè Michelangiolo che in via Larga, ora via Martelli, tra il ’48 e il ’55 fu il luogo di convegno dei cospiratori più ardenti e dal ’55 al ’66 degli artisti più moderni e più fervidi che vissero a Firenze o vi passassero, accesi nel loro entusiasmo per la nuova pittura francese anche dagli entusiasmi francofili del 1859.
Osservano i macchiaioli che noi non vediamo i contorni di tutte le forme, ma solamente i colori di queste forme, che dunque la linea – il così detto disegno – è solo il concetto astratto delle forme delle quali considera solo i limiti e le proiezioni, prescindendo dalla luce che le avviluppa e dal colore che le riveste, mentre di fatto l’occhio non percepisce che luce e colore. Per parlar nel gergo dei pittori, il vero, così, risulta solo da macchie di colore e di chiaroscuro ciascuna delle quali ha un valore proprio che si misura col mezzo di rapporto tra i vari toni. Un colore, di fatto, non cambia mai, può essere più chiaro o più scuro ma il turchino resta sempre turchino e il rosso sempre rosso. L’ombra, cioè, non ha un colore per sè stessa: per dirla con Adriano Cecioni, dal quale tolgo queste definizioni, essa non è un panno ma un velo.
Queste massime che i macchiaioli avevano dichiarate fin dal 1855 furono, in fondo, il vangelo degl’impressionisti francesi. In un articolo del 1866 sul Monet, Emilio Zola definiva così la legge dei valori: “L’artista posto davanti a un soggetto che pur sia, si lascia guidare dai suoi occhi che veggono questo soggetto come una combinazione di larghe tinte sottoposte a una legge che le impone le une alle altre. Una testa di contro a un muro non è che una macchia più o meno bianca su di un fondo più o meno grigio, e il vestito della figura diventa, per esempoi, una macchia più o meno blu messa accosto alla macchia più o meno bianca. Da ciò una grande semplicità, quasi nessun dettaglio, un insieme di macchie giuste e delicate le quali a qualche passo di distanzadanno al quadro un rilievo che colpisce”. L atraduzione di questo passo la trovo in una conferenza sugl’Impressionisti francesi (l’appellativo anche in Francia non apparve che nel 1874) tenuta da Diego Martelli nel 1877, proprio da Diego Martelli che fra i critici nostri fu il primo a difendere e a diffondere le teorie dei macchiaioli
Non intendo con questo stabilire una precedenza dell’arte italiana su quella francese. Sarebbe una fortuna troppo grande e poco vera. E quei tre che tornarono da Parigi e quelli che primi a Firenze li ascoltarono – e di costoro il più vecchio era Vincenzo Cabianca veronese e il più giovane Telemaco Signorini– , quelle loro teorie non le avevano tratte solo dalla loro testa: le avevano formulate vedendo gli uni a Parigi, gli altri nella villa Demidoff a san Donato sopra Firenze, non solo Delacroix ma anche Decamps e poi i paesisti francesi detti “del ’30”, Corot e Rousseau e Daubigny. Ma un fatto è certo: che quando nel ’63 Manet espose al Salon la Colazione sull’erba cui voltarono le spalle indignati l’imperatore e l’imperatrice, e quando nel ’65 vi espose l’Olympia, e quando Degas già passato dall’imitazione di Ingres a quella di Delacroix fu dalla vista delle pitture giapponesi al salon del 1867 indotto alla pittura di movimento, il Cabianca e il Signorinie il Bantie il Tivolie il Borrani avevano già da molti anni statuito dogmi e dipinto quadri degni d’essere, non solo nell’intenzione, paragonati per modernità ai quadri di quei maestri francesi. Il più celebre quadro del Signorini, Le Pazze, fu, a detta del Cecioni, dipinto nello stesso anno in cui fu esposta l’Olympia. Anzi il Signorini, in una polemica sul Rinnovamento di Venezia nel giugno del 1874, affermò addirittura che all’Esposizione Nazionale di Firenze del 1861 col trionfo del Morelli, del Celentano e del Fontanesi, i macchiaioli potevano già dire d’aver definitivamente vinto la loro battaglia e convinto anche il pubblico.
Ma la lotta che allora si combatteva dagli artisti e dai critici del Caffè Michelangiolo, e non solo dei macchiaioli, non era solo contro un a vieta tecnica pittorica, era tutta contro un’istituzione:conro l’Accademia. E anche in questa lotta nessuno superò, per audacia d’epigrammi e sagacia d’argomenti, Telemaco Signorini.
Ormai veramente non esisteva più la classica Accademia dell’Appiani e del Benvenuti, con dogmi fissi, metodi infrangibili come sbarre di prigione, esemplari intangibili come divinità: esistevano le accademie, e ognuna s’impersonava in un maestro, il Bezzuoli a Firenze, l’Hayez a Milano, il Podesti a Roma, il Lipparini a Venezia , per dir solo di quelli che ancora hanno un nome. Questo costrinse quei polemisti a demolir le persone per demolire l’istituzione , a “sciupar la gente” come diceva il Cecioni, con sarcasmi e dileggi prima che a criticar l’Accademia con forza di ragionamenti e d’opere. Ma alla fine, venti o trent’anni dopo, le stesse Accademie dovettero finire a pensare, se vollero avere una parvenza di vita, come quei loro oppositori spietati.
L’Accademia aveva, con criteri esterni e nominali, divisa la pittura in varie classi, prima la storica, poi quella di genere, poi quella di paesaggio, e v’erano anche le sottoclassi, la pittura storica pagana e la pittura storica cristiana, la pittura d’animali e la pittura d’architettura. E i macchiaioli urlavano che un cavolo e una rapa valevano in pittura Dante e Beatrice , e il paesaggio valeva il quadro storico, e di categorie in pittura ve n’eran due sole: la pittura buona e quella cattiva. E’ un sonetto del Signorini:
Ti dan l’Arte così: per prima classe
c’è la pittura storica e c’è poi
la pittura di genere…
E contro le finitezze e le melensaggini dell’aneddoto spiritoso o commovente nella pittura di genere – seconda categoria di nobiltà, – altre frecciate:
…Un bel quadretto
Se vedesse che bella cosettina!…
V’è una mamma ammalata, accanto al letto
ci si vede a sedere una bambina
che fa la calza, ed è tanto carina…
E se vedesse, poi, c’è con rispetto
un bel vaso da note con l’…
che non si puol vedere il più perfetto.
Fin nella madia ci si vede il tarlo
che ha fatto i buchi…
L’Accademia aveva i suoi santi: i greci e Fidia e Prassitele, e Raffaello, – San Raffaello Sanzio. Chi avrebbe osato bestemmiarli? E quelli ripetevano la storiella del Courbet che da vecchio va per la prima volta al Louvre e ne esce dichiarando che all’infuori dei suoi quadri non v’è niente di buono; e per sinonimo di goffaggine leziosa e convenzionale davano abitualmente l’Apollo del Belvedere o la Madonna della Seggiola; e degli antichi non salvavano che i “primitivi” quattrocenteschi “perchè erano ingenui”.
L’Accademia proclamava la necessità della scuola e d’un lungo tirocinio a passo a passo? E quelli a proclamare che le scuole ufficiali d’arte offrendo a tutti l’occasione prossima per diventare gratis tanti Raffaello, erano una fabbrica di spostati e di bugiardi, – che l’arte non s’insegna e tutt’al più se ne possono insegnare i primi rudimenti meccanici, – che l’osservazione del vero è il solo professore rispettabile. Nel 1863 il Signorini espose un quadretto dove due bambini con gli occhi rossi di pinato guardavano da sotto a un ombrelòlo due galline che beccavano vicino a una siepe. E il quadretto era intitolato: Felici voi galline che non andate a scuola!
Fin negli atteggiamenti e nei vestiti e nei modi di dire essi deridevano i professori e gli studenti dell’Accademia. Questi per rispetto ai maestri e agli antichi dovevano esser modesti e presentando un proprio lavoro dirne male, compunti, gli occhi a terra? E il Signorini a gridare in difesa dell’originalità e della sincerità : – Un quadro mio, prima di tutto deve piacere a me!