Proponiamo la terza e ultima parte della biografia di Telemaco Signorini curata da un critico autorevole come Ugo Ojetti che del pittore fiorentino, oltre che amico,è stato estimatore e raffinato collezionista dell’opera. Si tratta di uno dei profili più incisivi tra i molti dedicati ai macchiaioli, movimento del quale la Società di Belle Arti gestisce un numero significativo di quadri in vendita:
…. E contro la posa dei modelli all’Accademia, precorrendo anche qui gl’impressionisti e “la pittura di movimento”, egli e i suoi amici chiedevano che il modello si movesse per mantenere un’espressione spontanea e per rivelare tutt’i giochi della luce sulle sue carni. Da dove gli venne un altro sonetto, o qualcosa di simile:
I pittori? Son matti da legare.
Gli ho bazzicati, sai, fin da piccina.
O senti questa. Vo dal sor Gravina,
Mi spoglio e lui si mette a lavorare.
Ma senti proprio se non è carina.
Già più si campa e più c’è da imparare.
Lo sai perchè s’è messo a liticare?
Perchè gli stavo ferma! Eh, Giovannina,
Non è nuova? Ed urlò come un dannato:
-O movito perdio! Ma chi lavora
Con un modello tanto addormentato?
Va via, ritorna a far la stiratora.
Fammi il piacer, va via, mi son seccato. –
M’ha aperto l’uscio e m’ha cacciato fora
Con un francaccio lercio e rattoppato!
Naturalmente, poichè i nostri nemici diventano sempre alla lunga, i nostri padroni, anche questi ribelli diventarono intransigenti e stabilirono certe norme che qualche volta li mutarono in accademici, con l’a piccola, altrattanto feroci degli altri accademici con l’A grande. Ad esempio quella per cui le figure dipinte da un vero macchiaiolo non dovevano oltrepassare “la dimensione dei quindici centimetri, quella dimensione che assume il vero quando si guarda a una certa distanza, a quella distanza cioè in cui le parti della scena si vedono per masse e non per dettaglio”. Son parole d’uno dei loro profeti, dello scultore Cecioni che scriveva sotto il nome d’Ippolito Castiglioni.
Ma la furia era tanta che vent’anni dopo, quando nel 1882 l’Accademia di Firenze credette opportuno di nominare professore di merito Telemaco Signorini, questi rifiutò l’onore con una lettera che finiva così: “Oggi ho quarantasette anni e se l’Accademia mi ha reputato non migliore artista ma uomo più disciplinato di prima e perciò mi onora di questo titolo, io la ringrazio della sua buona opinione ma rifiuto, non potendo rispondere di me se per un resto di giovinezza dovessi commettere altre insubordinazioni e demeritare di questa onorificenza”.
Questa furia spiega l’intima ragione della vittoria dei macchiaioli e della bontà di tante opere loro. Anche creando una scuola, anche restringendo i temi dei loro quadri alla più semplice verità, anche dettando canoni e dogmi, essi non tendevano ad altro che lla liberazione della personalità dell’artista fuori da tutte le pastoie della tradizione e dei maestri. Essi sentivano che le scuole passano, che solo la personalità d’un artista rimane ed è la misura del suo valore nella storia dell’arte. E odiavano il piatto realismo quanto il più tronfio accademicismo:
Mente questo immoral romanticismo
e questa nuova Arcadia e i barbagianni
che calunniano il ver nel realismo,
affermava il Signorini. La “macchia”, l’impressionismo, l’osservazione della realtà più fugace erano soltanto dei mezzi – i migliiori mezzi secondo loro – per la ricerca dell’originalità del pittore e del carattere delle cose dipinte, di quello che essi chiamavano il sentimento. E le fughe nella aperta campagna, a Pargentina nel 1862 dove ai primi macchiaioli si unirono il Lega, l’Abbati, il Sernesi e per poco il Moradei di ravenna, o alla villa dell’Ombrellino a Bellosguardo dove l’incisore francese Desboutin invitava tra il ’63 e il ’64 il Signorini, il Boldini, il Sernesi, il Gordigiani, o a Castiglioncello nell’ospitale casa di Diego Martelli – due lire al giorno di pensione – dove per tanti anni convennero ogni estate il Costa, il Fattori, il Cabianca, il Signorini, lo Zandomeneghi, il Bechi, il Sernesi, l’Abbati, non significavano altro che questa liberazione dagli obblighi cittadini, dalla vicinanza dei musei e delle scuole e dei capolavori opprimenti. E gli epigrammi, le satire, le burle, le caricature delle quali lo stesso Signorini ci ha lasciato una narrazione così arguta e piacevole nel suo Caricaturati e caricaturisti al caffè Michelangiolo tra il 1848 e il 1866, non erano che l’esasperazione di queste sincerità spesso ribelli anche alle regole di un’educazione appena civile, sospettose perfino della schiavitù che può venire da un successo troppo diffuso e rumoroso, ma tolleranti, anzi rispettosi verso ogni artista che lavorasse da sè, per sè, in uno sforzo continuato verso il meglio, Palizzi, Morelli, De Chirico, Costa, Fontanesi, Rayper, Pasini, Cremona, Pagliano, Mosè Bianchi non furono davvero dei fedeli seguaci dei dogmi “macchiaioli“: ma da questi furono amati e lodati egualmente perchè erano qualcuno ede rano originali o almeno si sforzavano d’esserlo. Ma guai ai traditori! Contro il De Nittis e contro il Boldini, appena Parigi e il mercante Goupil e il successo economico parvero corromperli e asservirli, tutti dimenticarono l’antica fraterna amicizia che nei meno buoni fu fatta anche d’invidia.
Allora Firenze era un’altra e l’arte vi era stimata, discussa, comprata dai cittadini e dagli stranieri. Adesso tutta l’attenzione del pubblico italiano per l’arte è andata giù di un’ottava, e a Firenze più che altrove. Non v’è più a Firenze un Circolo artistico, un’esposizione di qualche rinomanza, una galleria appena decente d’arte moderna, non esiste più una scuola che possa dirsi tipicamente toscana e i vecchi, morto il Signorini e il Fattori, sono non solo separati dai giovani, ma nemici loro. Nel 1909, al concorso poi lascito Ussi che era bandito dall’Accademia e assicurava un premio di undicimila lire, non s’è trovato un quadro degno non dico di premio, ma di lode.
E alla fine Firenze d’allora i più ribelli e i più fieri di quelli artisti pensavano sempre con affetto di figli. Bisogna leggere nei preziosi carteggi lasciati dal Martelli, dal Cabianca, dal Fattori, dal Banti, dallo stesso Signorini il quale pure morì senza aver la consolazione di vedere un quadro suo nelle pubbliche raccolte fiorentine, con che impeto d’amore e di rimpianti essi scrivevano ai parenti e agli amici rimasti in città. E più lontani erano, più quell’amore cresceva. Si poteva dire che essi viaggiavano per raccogliere da tutto il mondo un’esperienza e una scienza capaci di ricondurre le loro città alle glorie dei secoli d’oro.
E quanto viaggiavano! Il Signorini andò a Parigi la prima volta nel 1861 col Cabianca e col Banti e vi ritrovò il Gordigiani, l’Ussi, il Costa e gli amici di Piemonte, il Raymond, il Gamba, il Pastoris, e vi conobbe il Corot e il Troyon, e a metà strada potè udire al parlamento di Torino l’ultimo discorso del conte di Cavour. L’anno dopo – l’anno d’Aspromonte – perdette il padre e non potè per questo raggiungere Garibaldi a Genova. Nel 1868 tornò a Parigi. Nel 1872, ancora a Milano dove aveva esposto molti studi di Vinci, e a Verona e a Venezia. Nel 1873, ancora a Parigi dove lavorò anch’egli pel Goupil e ritrovò il De Nittis, il Cecioni, il Campriani, il Michetti, il Boldini, il De Amicis e conobbe lo Zola, il Manet e il Degas cui restò legato fino alla morte e di cui conservò nel suo studio, come un tesoro, il pastello d’una ballerina con tanto di dedica. Nel ’76 e nel ’77 andò a Napoli dove alla grande esposizione italiana vendette il suo quadro di Porta Adriana a Ravenna che ora è a Roma, ed è l’unico quadro suo dove, come ho detto parlando del Michetti, si scorga un riflesso delle minute preziosità del Fortuny. E nell’80 era all’Esposizione di Torino, relatore, in quel Congresso artistico, sopra una riforma dell’insegnamento artistico e del pensionato nazionale; e vi esponeva il Ponte Vecchio. E nel ’78, nell’81, nell’83, nell’84, da Parigi arrivò a Londra e a Edinburgo, riportandone ogni volta studi e quadri che sono fra i suoi più caratteristici.
Amava l’Inghilterra più della Francia. Vitrovò, come il Costa e il Cabianca, compratori e ammiratori e amici fedeli. Nel 1883 vi vendette tutti i quadri del Mercato vecchio di Firenze dei quali nella pubbliche raccolte della sua città non è rimasto pure uno. E soprattutto vi sentì quel rispetto dell’individuo e dell’originalità che in Italia e in Francia era ed è un’eccezione. E poi là si rivestiva a nuovo con fogge d’un eleganza che gli era cara e con stoffe d’una durata che gli era utile.
Intanto s’era maturato in lui, accanto al pittore, lo scrittore: uno scrittore spesso scorretto ma sempre franco chiaro incisivo brioso che da buon toscano voleva anche in poesia scrivere come parlava. In questa nuova professione lo soccorrevano le molte letture e le amicizie con gli scrittori più vivi, dal Carducci al nencioni, dal Fucini al Pascarella e ala Capuana, da Emilio Praga a Ferdinando Martini. Il Nencioni per molti anni da Firenze, da Napoli, da Roma quand’era al Fanfulla della Domenica e alla Domenica letteraria, gli scriveva spessissimo, gli chiedeva giudizi e consigli sopra i versi e gli articoli che preparava, sopra i libri che leggeva.
“Tu hai un petit grain de Montaigne, gli scriveva, fra le tue qualità artistiche esai trovar tempo a tante cose e profittare di tutto e di tutti pel tuo perfezionamento intellettuale. Averti perso di vista per anni ed anni mi ha nociuto sotto tutti i rapporti”. Luigi Capuana che, quando nel 1864 conobbe il Signorini, incideva anche all’acquaforte e disegnava anche caricature argutissime, ha già narrato nella Confessione a Neera d’aver letto la prima volta Diderot e Balzac per consiglio di lui. In compenso nel 1866 gli mandava da Mineo, manoscritto, un suo Nuovo metodo d’incisione da potersi sostituire all’acquaforte… A Emilio Praga nel ’77 il Signorini dedicò uno dei più arguti sonetti delle 99 discussioni artistiche:
Povero Praga, mi rammento il giorno
che ti dissi un gran mal del tuo Milano…
Ti dissi, in piazza: Vedi, sembra un nano
il domo, un pasticcin tolto dal forno;
il forno, quel gabbione ove un cristiano
trova un reuma all’andata, uno al ritorno.
Col Panzacchi fu amico per poco. Si guastarono quando il Panzacchi scrivendo, sulla Nazione, dell’arte all’esposizione donatelliana del 1881, non ammirò un quadro di cavoli dipinto dal Tommasi e disse male di Manet. Vi fu sui giornali uno scambio di sonetti fra il poeta e il pittore il quale naturalmente volle dir l’ultima:
Dalla dotta Bologna, o dotto Enrico,
e dall’altezza tua degni calare
fino a me che l’ho detto e lo ridico:
di quello che non sai, non ne parlare.
……….
Hai davvero l’ardir dei dilettanti,
il verso che ben suona e nulla dice;
ma ti manca il saper degl’ignoranti.
La divina ingenuità, “il saper degl’ignoranti”, era per lui la prima dote d’un artista. Egli riescì nonostante la sua dottrina e il suo scetticismo, a possederla in molti dei suoi quadri, in tutti i suoi bozzetti dal vero dei quali ancora qualche centinaio è custodito dal fratello Paolo Signorini. Certo la esaltò in tutti i suoi articoli, anche nel pieno della mischia dei macchiaioli quando i suoi compagni di rivolta non parlavano che di tecnica e di toni e di valori e di rapporti.
Nino Costa romano che era stato a Firenze, col Cabianca veronese, tra i primi maestri di quelli innovatori, diceva che l’arte è l’emanazione del sentimento individuale nella ricerca della verità. E questo fu anche il vangelo di Telemaco Signorini. Dalla scuola alla vita, l’artista non doveva curarsi d’altro che di mantenere fresca e continua l’intima sorgente del propro sentimento, la propria ingenuità o almeno la propria sincerità. Solo a questo patto l’opera d’arte è umana e può suscitare la “simpatia” dello spettatore capace perchè rivela un’anima, l’anima di chi l’ha creata.
in questo sentimento, in quest’anima che un’opera d’arte deve rivelare, egli paesista includeva anche il sentimento e il carattere del paese rappresentato dall’opera d’arte. Poeta dialettale spesso degno d’esser paragonato al Fucini, sentiva che anche i paesaggi devono, si può dire, essere dipinti in dialetto. Per questo i suoi quadri migliori, quelli in cui la pennellata tagliente e la sua pittura sempre più chiara e luminosa e argentina e sempre più, cogli anni, libera dal lividore di Pissarro e di Monet e degli altri primi impressionisti francesi, raggiungono l’espressione più semplice e più diretta, son proprio quelli dipinti nei paesi in cui egli è tornato più volte e ha dimorato più a lungo: Firenze e le colline sopra Firenze, Spezia, Viareggio, Riomaggiore e tuta la riviera toscana , Venezia, la Scozia. Le sue acqueforti del Mercato Vecchio di Firenze sono come la quintessenza di queste sue ricerche.
Dalle quali gli venne la grande scienza di saper scegliere anche pei suoi quadri di figura l’ora e la luce che meglio definiscono la scena e i tipi e i gesti raccolti in una scena. Si guardino, per questo, solo quattro quadri suoi: la Sala delle agitate, il Bagno Penale di Portoferraio, la Toeletta del mattino solo due anni fa (1909) esposta a Venezia e dipinta in una casa malfamata di via Lontan Morti nel centro di Firenze ora demolito, e i Vecchi sul ponte di Chioggia al lume della luna. Eppure nel Signorini pittore di figura pochi hanno creduto e pochi ancora credono. Egli ha in comune col Degas certe bravure di pennello che compendiano un movimento in un modo troppo sommario per l’occhio dei più; e l’antica abitudine della macchia più accentuava queste bravure. Ma quando un’esposizione vorrà avere il vanto di far dell’opera di lui una mostra più completa di quelle finora tentate con poca avvedutezza e v’includerà anche una buona scelta dei suoi mille disegni, quell’errato giudizio sarà facilmente corretto.
-La sincerità….E’ un’ottima qualità in arte, – mi diceva un giorno, l’anno prima di morire, – ma è una pessima qualità nella vita. Me ne sono accorto troppo tardi!
Non era vero. Se n’era accorto prestissimo, ma non s’era mutato per questo. I suoi articoli del 1867 sul Gazzettino delle arti di disegno, la sua relazione all’Esposizione nazionale di parma del 1870 dove era stato fra lo spavento dei ben pensanti nominato giurato e segretario della giuria col Cecioni, col Banti e col Sorbi, le sue lettere da Parigi al Giornale artistico, i suoi articoli e le sue polemiche sulla Gazzetta d’Italia, sulla Gazzetta del Popolo, sul Fieramosca, sul Capitan Fracassa, gli fruttarono sempre più inimicizie che ringraziamenti. E dopo la polemica scritta egli si divertiva ad esasperare quelle inimicizie con l’epigramma orale.
A lui bastavano per vivere in pace, poche lire e pochi amici. E degli amici falsi faceva quel che fanno i bottegai delle monete false: li inchiodava sul banco, alla berlina, come un avvertimento per sè e per gli altri. Ma per gli amici sinceri non badava a disagi, a privazioni, e non l’intiepidiva la lontananza, e si burlava dei mettimale.
I vecchi compagni gli morivano tutti a uno a uno: Vito d’Ancona, Enrico Nencioni, Diego Martelli, Adriano Cecioni, Silvestro Lega, Giuseppe De Nittis, che poi nelle Note et Souvenirs pubblicate dalla vedova si rivelò così ingrato verso gli amici d’Italia. Egli ormai scriveva più poco sui giornali, si contentava di confidare i suoi pensieri e le satire e i ricordi a certi suoi quadernetti dei quali uno, stampato adesso dal fratello per offrirlo agli amici, contiene la descrizione di Riomaggiore e, si può dire, di tutte le sue vie e di tutti i suoi abitanti, prima disegnati a penna o a matita, poi descritti in una prosa semplice e arguta e patetica. Ma quando quei suoi vecchi amici morivano, egli tornava davanti al pubblico per comporli con le sue mani pietose nella tomba. E ad ognuno di quelli articoli i migliori fra i giovani si stringevano con più affettuoso ossequio attorno a lui. Son memorabili fra le buone azioni degli ultimi suoi anni le fiere parole con cui egli nel 1894 difese al tribunale di Genova Plinio Nomellini processato con altri come anarchico per associazione a delinquere contro la sicurezza dello Stato. Egli parlava anche in nome del suo vecchio Fattori:
– Noi siamo vecchi e le nostre speranze son volte tutte ai giovani come quello là. Sarà vergogna a noi che, chi più chi meno, abbiamo contribuito a liberare l’Italia, soffocare in carcere il pensiero e l’arte della generazione che ci deve succedere. – E a testa alta, gli occhi lucidi di pianto, attraversò l’aula e andò a stringere, attraverso le sbarre della gabbia, la mano al suo amico. Il Nomellini fu assolto.
Verità e sincerità sempre, paura mai. Non l’ebbe nemmeno della morte. Me lo rammento nel suo studio di piazza Santa Croce l’anno prima che morisse. Era di primavera e l’occhiello della sua giacca logora era fiorito d’un mazzo di violette. Pur continuando a far passare sotto i miei occhi, uno dopo l’altro, soffiandoci su come sopra uno specchio e lustrandoli con il fazzoletto, i suoi ultimi studi, – e aveva sul cavalletto la sua solita cornice dorata che ogni volta con vari riquadri di cartone egli rimpiccioliva sulla misura dello studietto che voleva mostrare, – si lamentava d’essere malato. Io lo confortavo come potevo e , mi parve per quel giorno, per quell’ora, d’averlo convinto a sperare.
Invece, pochi mesi fa, fra le sue carte ho ritrovato il suo ultimo sonetto. E’ intitolato: La commedia dell’amore per l’avvento della morte e comincia:
L’ho recitata anch’io questa commedia
Che oggi recita a me la mia famiglia:
– Non hai nulla – mi dice e mi consiglia
di stare allegro…
E morì sereno, sapendo di morire