di Bruno Muheim, da Il Giornale dell’Arte, gennaio 2016

 

Il 2015 avrebbe dovuto essere per Christie’s e Sotheby’s l’anno del ripensamento non solo dei modelli di gestione, ma soprattutto della politica di approccio al mercato. Al contrario, a me pare che come due treni fantasma le due case d’asta siano impegnate in una corsa diabolica verso la propria disintegrazione. Trovo, e mi dispiace, che il mercato dell’arte vada malissimo: i risultati iperbolici di alcune aste di arte contemporanea, arte moderna, gioielli, design e arte cinese non possono nascondere il marasma assoluto del resto. Fino alla metà dell’Ottocento nessuno avrebbe mai avuto in casa la teiera della nonna o il comò dell’antenato. Ogni generazione usava arredi rigorosamente contemporanei: si parlava per esempio di arredi Luigi XV o Giorgio III (i regnanti dell’epoca). Verso la fine del XIX secolo, però, iniziò la tendenza a rifiutare gli arredi della propria epoca per rifugiarsi nel passato. Ora siamo arrivati a un cambiamento epocale e ahimè, definitivo della storia del gusto: non esiste più l’amore per l’antico, che è considerato solo un materiale di seconda mano. Così le aste di porcellana, argenti, oggettistica e arredi, principalmente del Settecento, sono moribonde, eccezion fatta per alcuni capolavori. Per esempio, l’argenteria di inizio Ottocento si vende ora al prezzo intrinseco dell’argento, quando vent’anni fa si vendeva fino a un triplo di quella cifra. Per le case d’asta la conseguenza diretta è che i relativi dipartimenti non solo non sono redditizi, ma le loro perdite diovrebbero essere coperte dai profitti dei dipartimenti di successo come quelli summenzionati. Questo in un modo ideale.

Dopo le aste iperboliche a New York  di arte del XX secolo e contemporanea si sa che da Christie’s i guadagni cospicui sono serviti ad assorbire  le perdite su alcuni quadri rimasti invenduti. Da Sotheby’s alcuni parlano di 70 milioni di perdita sulle garanzie.

Facciamo un passo indietro. Fino a vent’anni fa le case d’asta erano solo e rigorosamente degli intermediari, incassavano una commissione dal venditore e una dal compratore. A un certo punto, per lottare contro i mercanti hanno offerto ai venditori una garanzia, un prezzo garantito sia che il quadro si venda, sia che rimanga invenduto. Raramente la garanzia superava il 60% e di solito era proposta solo su una collezione, quindi nel caso di un quadro invenduto la vendita degli altri lotti consentiva un incasso sufficiente per recuperare la perdita. Grazie ai geni della finanza che hanno cacciato gli esperti del management delle società di vendita ora si garantisce quasi il 100% del valore, anche solo su un’opera. Rischi massimi dunque.

Da Christie’s è stata prevista una serie di licenziamenti, da Sotheby’s una campagna di partenze volontarie organizzate con un esito positivo solo dopo una settimana dal comunicato stampa trionfale della direzione. Non voglio essere troppo critico, ma non si può chiamare un’operazione di successo la riduzione del personale, soprattutto quando è volontaria: partono solo i migliori, perchè sanno che un altro lavoro lo trovano. Christie’s e Sotheby’s vivono solo di commissioni sul venditore, molto spesso ridotte al minimo; non hanno dunque riserve importanti. Un altro anno disastroso come quello appena conclusosi, trascorso ad offrire garanzie a tutti per guadagnare la supremazia del mercato, è suicidio puro: meglio meno aste, magari molto meno importanti ma con guadagni sicuri. E’ un linguaggio che gli uomini di finanza che sono approdati nel mercato dell’arte dopo aver affossato quello della moda sono incapaci di capire.  Hanno associato questi due mercati  della nicchia del lusso come loro unico campo d’azione e li stanno distruggendo entrambi. Se Christie’s e Sotheby’s non risolvono la questione delle garanzie non passano l’anno.

Unica nota positiva: le nostre case d’asta nazionali sopravvivono bene, sono gestiti da uomini e donne del mestiere, conoscono le regole e le applicano. Il buon senso del contadino spesso risolve le tematiche più sofisticate.