da “Sei dipinti di Lorenzo Viani” di Mario Borgiotti, Milano dicembre 1962 e “Lorenzo Viani” di Aniceto Del Massa, Milano, 1942

“Da più di trent’anni indago e raccolgo opere di Macchiaioli toscani, ed ogni attività, dopo quella del dipingere, e intesa a far conoscere le spontanee qualità dei pittori che seppero  impossessarsi degli aspetti della natura e delle cose con una freschezza ed una potenza ignote all’arte italiana prima che essi venissero ad insegnarle. Credo ora di dare una ragione e di mostrare come le mie preferenze abbiano avuto un compimento nei successori dei Macchiaioli, se spiego perchè sono stato colpito da sei opere di Lorenzo viani che ho raccolto nel mio studio, perchè amici e conoscitori possono guardarle e sentir sorgere una ammirazione che corrisponda ai miei sentimenti.

Il Viani, come del resto anche il suo coetaneo Amedeo Modigliani, uscì dalla scuola del Fattori, e le sue opere, pur maturate attraverso le più avventurose esperienze parigine, hanno sempre un’evidenza, una passionalità ed una misura che ricordano l’origine toscana.

Il Viani, uomo rotto a tutte le esperienze più spregiudicate del vivere, del dipingere e dello scrivere, passato accanto agli uomini più illuminati del suo tempo, aperto alle esperienze della critica, sapeva quanto l’opera dei Macchiaioli aveva portato alle correnti artistiche lanciate a quelle ricerche di una vitalità nuova e di valore universale che egli stesso seguiva.

Io non posso vantarmi di essere un buon testimonio della coscienza che il Viani aveva delle sue origini e dell’aiuto che aveva ricavato dalla conoscenza di Giovanni Fattori.

Un giorno dell’agosto 1933, a Viareggio, Mario Galli  ed io lo incontrammo, e, dopo che ebbe parlato del Fattori e della sua arte, ricordò che era stato suo allievo  e da lui assai ben visto, soprattutto perchè aveva riconosciuto il suo entusiasmo di disegnatore. Posso ripetere le sue stesse parole: “Fattori osservava i miei disegni e diceva: “Ci sono degli errori; però sono errori buoni”. Egli torceva la bocca nel vedere certe mie figure, ma sentiva che erano volutamente deformate, e le giudicava: “Comunque son cose originali, fai come vedi e come senti, non lasciarti deviare e chissà che tutto ciò non possa essere anticipo delle tue prossime conclusioni personali e stilistiche”.

Il Viani dimostrava   di essere grato  al grande maestro che l’aveva esortato ad avere fiducia in se stesso, e confermava: “Si, è vero, ho sempre spinto la deformazione esperssiva rimanendo su un limite oltre il quale si trova la caricatura, perchè ho sempre voluto penetrare nello spirito dei miei modelli, per lo più gente malfatta e malandata; ho voluto sempre rappresentare il loro pensiero interno e rendere vive le loro figure perchè ad esse andavano la mia simpatia  e il senso della mia fratellanza umana.”

Pochi sono gli artisti che possono vantare la potenza del Viani, immediata e incapace di arrestarsi alle manifestazioni esteriori,ossessionata dal bisogno di far sentire il vero con l’intensità profonda e con la vigorosa e prodigiosa vitalità con la quale egli stesso lo sentiva.

Nell’invitare gli amici, gli studiosi e gli amatori milanesi  a considerare con me nel mio studio le sei intuizioni pittoriche, che mi sembrano contenere in sintesi il mondo ideale nel quale si agitò il pittore viareggino,  pensò così di commemorare, come so e come posso, l’artista nell’ottantesimo anniversario della nascita, avvenuta il 1 novembre del 1882.

Le sei opere furono eseguite con mezzi tecnici differenti: ognuna rende, tuttavia, la suggestiva potenza di visioni definite, raccontate con la parca concentrata energia dei discorsi che possono essere fatti da diseredati toscani ai quali la vita ai margini della società non tolse le abitudini di pensiero della loro civiltà antichissima.

Si scorge, dalle opere, come il Viani ereditò dal Fattori il disegno essenziale, l’austerità incisiva e ferma che si addice a monocromati e ai bigi spenti, rialzati, non di rado, da qualche tono fiammeggiante, entro un’atmosfera ferma e di una malinconia vicina alla tragedia.

Io non voglio fare il critico. Presumo che le sei opere spettino agli anni immediatamente successivi alla prima guerra e limito il mio compito alla presentazione di queste gagliarde figure di pieno sapore plastico che, del resto, sono più convincenti di qualsiasi dissertazione. Esse rievocano i soggetti più idonei alle virili commozioni e al temperamento del nostro artista. Sono, quindi, dotate delle sue qualità più salienti: la fermezza e l’esattezza delle osservazioni per far risalire gli elementi dai quali è data la loro vitalità.

 

Nelle varie pitture soprattutto si può  notare una monumentalità che non si può credere soltanto intenzionale, perchè, come nel “bovaro” rispecchia l’interpretazione  serena di un lavoratore sano e vigoroso che appare come la conclusione di una forza isolata e pura, la quale non sente il bisogno di essere sorretta da qualche cosa di esteriore.”

 

 

 

 

 

 

Disegni di Lorenzo Viani  da “Lorenzo Viani“, Aniceto Del Massa, Milano, 1942:

 

“Lorenzo Viani è morto nel novembre del 1936, il giorno 2. Come accade per i veri artisti la sua opera non solo è ancor viva ma più il tempo vi passa sopra meglio si definisce e precisa.  Si colloca da sè nel posto che le spetta e le si conviene a malgrado della poca attenzione da parte della critica e di quella eccessiva parte degli amici, unilateralmente eccessiva, per i casi, per il tipo; la popolarità di Lorenzo Viani, popolarità meritatissima perchè egli seppe restare col popolo senza subirne il giogo, ha nuociuto – come spesso avviene – alla fama.

La sua pittura, i suoi disegni, i suoi legni e le sue pagine si scelgono sena fatica, si collocano in chiare armonie per virtù propria. E ne ebbi la prova quando con Gianni Vagnetti risalii nel suo vasto studio così ancor vivo del suo lavoro, della sua presenza, nel novembre del 1939, per scegliere le opere da riunire nella mostra commemorativa che la “Dante” volle ordinare nella sua sede fiorentina. Si staccavano i quadri e uno chiamava l’altro, un periodo di esperienza e di dura fatica apriva a volte orizzonti nuovi; un disegno, un dipinto riassumeva illuminandolo un cammino aspro, incerto. Quella mostra, e mancavano pezzi importanti che non si poterono avere, valse a chiarire la figura dell’artista  a far sentire il valore, la grandeza tutta moderna e tradizionale, in una parola italiana, dell’arte sua.

In Viani la coscienza di scrittore non può essere dissociata dalla coscienza di pittore e disegnatore. l’una completa l’altra. Basta aprire un suo libro per notare subito le doti particolari allo scrittore nel fermare con mano agile e maestra scene e paesaggi, quinte e sfondi; nell’incidere caratteri e tipi, nel fissare con giusta misura il rapporto intimo tra creatore e creature per il quale ogni avventura umana si concreta in una rivelazione interiore; rapporto che è suggello di poesia. Ma riconosciuta questa stretta connessione tra le due espressioni occorre subito aggiungere che non vi è contaminazione tra esse per il semplice fatto che l’istinto ha sempre vinto sulla ragione.

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Cartelle e cartelle, blocchi e taccuini; quanti disegni? Centinaia e centinaia. Nello studio è difficile muoversi; ho salito tante volte queste scale lui vivo e dopo. E sempre ogni volta che vi torno non mi pare che Viani manchi; lo vedo sempre frugare o tra i libri o tra le cartelle, spesso anche lui incerto ove metter le mani e meravigliato nel riscoprire un brano di sè dimenticato. Disegni di tutte le epoche, di tutta una vita; dagli inizi (c’è una bella testa di Aligi da Francesco Paolo Michetti, fermissima e pittoricissima) fino agli appunti degli ultimi giorni al Lido di Roma; pensieri, note per gli affreschi che stava eseguendo. Un diario, un diario intimo dal qualesi può seguire passo passo la sua vita. E tra i tanti a quando a quando un disegno che si stacca dagli altri, tanto l’espressione si è purificata dai modi abitudinari. Sono i disegni che cerco. Viani genius loci  sì, con tutto il vernacolismo necessario al genius loci; ma Viani anche artista purissimo che quei confini varca: parole uscite da un’altra esperienza, in cui è superata la fatica dello scavo e nelle quali echeggia la gioia e la potenza della grazia.

 

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Il motto che aveva scelto “Non la quiete ma il mutar fatica alla fatica sia solo ristoro” (colo “solo” sottolineato) e che aveva scritto sul foglio ove era delineato il viandante col carico di un grosso masso sulle spalle e la stella lontana, fu il motto-simbolo della sua vita, il suo emblema araldico.

“S’aprì tutta la sua strada da sè – ha scritto Domenico Giuliotti – piangendo, ruggendo, e finalmente trovò l’ordine, l’arte ,la luce”. Morì sul lavoro.

 

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