Provinciali sono certe mode, non gli artisti

di Francesca Romana Morelli da Focus on del Il Giornale dell’Arte, novembre 2017

 

Daniela Fonti è storica, critica d’arte e giornalista esperta di beni culturali. Specializzata nell’arte italiana della prima metà del Novecento, ha curato rassegne (di Savinio, Severini, Sironi, Cambellotti, Depero, Thayaht e Carlo Levi) e pubblicato il catalogo ragionato dell’opera pittorica di Gino Severini (1988). E’ presidente della Fondazione Carlo Levi e responsabile scientifico dell’Archivio dell’Opera di Duilio Cambellotti.

Negli ultimi anni si allestiscono mostre sulla prima metà del ‘900. Questo fenomeno ha correlazione con il mercato?

E’ naturale che il sistema dell’arte in Italia tenda a sostenere gli artisti attivi nella prima metà del secolo. Per sistema, tuttavia, non intendo solo le gallerie ma anche quei musei , alcuni d’istituzione relativamente recente, come il Mart di Rovereto, che sotto la guida della fondatrice Gabriella Belli hanno fatto dell’arte italiana del XX secolo il perno della loro attività, anche promuovendo riscoperte critiche e mostre all’estero. Quindi penso non sia solo il mercato, che peraltro registra nell’ultimo quindicennio un’alternanza di modeste recessioni e riprese d’interesse (tipica l’apertura del collezionismo cinese nei confronti di Morandi) ma un consolidato parterre di galleristi, studiosi, curatori e direttori di musei che ritiene che non ci si debba del tutto arrendere a una certa moda curatoriale contemporanea che con troppa disinvoltura trasferisce nei depositi della Galleria Nazionale quattro quinti del nostro recente passato artistico.

Negli anni Settanta e Ottanta gli studi hanno sdoganato l’arte del Ventennio. Lo scenario allora delineato sembra ora nuovamente eclissato. E’ possibile, invece, che si tratti soltanto dello sguardo selettivo della storia?

Gli anni Settanta e Ottanta sono stati importanti per ricollocare criticamente artisti, anche meno noti, sui quali era gravato nei tre decenni precedenti il pregiudizio di collaborazione con il fascismo. Gli studiosi dell’immediato dopoguerra erano impegnati a salvare solo gli artisti  apparentemente meno  coinvolti nell’arte pubblica di regime, come Morandi o Pirandello, dalla figurazione più estranea al clima di Novecento (come i fratelli de Chirico) o altri, come Guttuso, che avevano esibito  un lungo dopoguerra immune da sospetti nostalgici.  Invece gli studiosi del periodo successivo, e  sono tanti (ma vorrei almeno ricordare Maurizio Fagiolo dell’Arco), hanno ricucito la complessa trama intellettuale e storica del periodo individuandone le componenti di modernità, le significative aperture  all’Europa, ma anche gli aspetti di provincialismo regressivo. E’ stato dissodato un territorio a lungo inesplorato, si sono incoraggiati gli eredi ad aprire gli archivi, si sono create collezioni pubbliche dedicate, come il Museo del Novecento a Milano o il Museo della Scuola Romana nella Capitale. Ora i valori economici si vanno riposizionando, ristabilendo gerarchie fra innovatori ed epigoni, anche se di qualità.

Nelle collezioni straniere che riguardano la prima parte del Novecento si trovano anche artisti italiani?

L’attivismo del sistema di promozione dell’arte messo in piedi dal fascismo durante il Ventennio  portò all’acquisizione di diverse opere degli artisti italiani documentati in questo “Focus” nei nascenti musei d’arte moderna statunitensi come centroeuropei. Credo che le opere di quegli artisti oggi si trovino per lo più nei depositi. L’attenzione dei musei stranieri, se parliamo della prima metà del secolo XX, si rivolge quasi esclusivamente a de Chirico e agli esponenti del Futurismo. A esso e alla Metafisica sono state dedicate  importanti mostre nei musei tedeschi, olandesi e americani. In alcune università americane , Yale ad esempio, è maturata una leva di studiosi che indagano seriamente, e spesso con approcci diversi dai nostri, il sistema dell’arte italiana del Ventennio. Credo che un modo per riattrarre l’attenzione internazionale sui nostri maestri trascurati sia anche di costruire progetti espositivi di grande rigore scientifico e insieme di qualche novità; forse non sono provinciali i nostri artisti, lo siamo stati un po’ tutti noi.