MiArt 8-10 aprile 2016

                                                                                                                                                               da Il Giornale dell’Arte, Vernissage n. 179 marzo 2016

Miart 2016

Miart 2016 tris 

Miart 2016 bis

            

Se è vero che il bello non ha epoca, è altrettanto vero che il collezionismo non conosce limiti nè di genere, nè di scuola, tantomeno di gusto.

Quello verso cui la Società di Belle Arti da sempre ha indirizzato le proprie scelte, qualificandosi come punto di riferimento per cultori, amatori e Pubbliche Istituzioni, è improntato a una linea che ancora privilegia nel quadro le peculiarità dell’opera d’arte: creatività, bellezza e unicità. Peculiarità che trovano, in special modo, ideale compimento in quella che è stata la grande stagione macchiaiola la quale, unitamente all’Impressionismo, ha segnato una svolta fondamentale nello sviluppo dell’arte moderna.

Con questo presupposto la Società di Belle, in occasione della partecipazione a MiArt, aprirà il percorso espositivo con un’opera di primo piano del pittore simbolo di un’arte che ha saputo fondere la grande lezione del passato con le avanguardie del XX secolo: Giovanni Fattori. Sono più che mai attuali le parole di Raffaele Monti sul “metro lessicale” del grande maestro livornese, tra i pochi del suo tempo in grado “di sviluppare nuovissime energie ritrando quell’istinto creativo degli antichi per cui la misura dell’opera è la misura stessa della storia”.

Un “istinto creativo”, al quale guardare come a un solido anello di congiunzione con personalità del rilievo di GhigliaNomelliniVianiSpadiniSoffici e Rosai, che dalla lezione di Fattori hanno tratto la sintassi più radicale, aggiornandola al lessico europeo.

Il nucleo proposto all’interno di MiArt s’impone come selezione di ampio respiro per la presenza di alcuni dei maggiori protagonisti del ‘900: de Chiricode PisisCavaglieri e Marussig; per loro e per altri artisti della stessa temperie culturale, “modernità” ha significato aprirsi al proprio tempo, interrogandosi sulle sue inquietudini e sui suoi inarrestabili mutamenti. Una sorta di soliloquio, di cui una personalità eccentrica e singolare come Thayat rappresenta un caso paradigmatico; la “Bautta”, visibile in mostra nella versione in marmo, è una mediazione tra iconografia classica e dinamismo formale, nella quale l’essenza della semplicità si fa opera d’arte.