Di seguito riproduciamo la prima parte del testo di Ugo Ojetti “Ritratti d’artisti italiani” dedicato a Giovanni Fattori:

 

“-Quali sono stati i primi soldati che ho studiati? I francesi. Mi rincresce: furono proprio i francesi, nel 1859. Non mi dovetti scomodar di molto. Venne apposta qui alle Cascine tutto il quinto corpo d’esercito, sotto Girolamo Napoleone. Li vuol vedere? Giovannino, prendi gli album sulla scansia. Sì, a Magenta e a Solferino fecero sul serio. Ma qui in Toscana l’idea loro era di mettersi a sedere sulla sedia del Granduca che era ancora calda. E poco dopo il papa benediceva il suo Lamoricière. Qui lo chiamavamo La morisse jeri, La morisse jeri…..

Giovanni Fattori è seduto nel mezzo del suo bello studio al pianterreno dell’Accademia fiorentina. Alle pareti e sopra un tramezzo che giunge a metà della stanza, grandi quadri di sobrio colore, con soldati e cavalli, buteri e buoi, tutti in movimento, così agitati da un’energia impulsiva che, a voltarsi, par di ritrovare uomini e bestie disposti in un altro gruppo o fuggiti lontano sulla polvere o sull’erba rada e riarsa, e paesaggi di Maremma e di Toscana fissati in linee essenziali, ritratti di paesi che sembrano d’un giottesco o di un quattrocentesco intorno a Masaccio ed a Piero, dove i monti e le piaggie sono scarniti come in un’anatomia e alti alberi di poca fronda su pei declivi e per le ripe si piegano al vento come ruvide capigliature sopra una fronte rugosa, dove l’azzurro e le nuvole accendono o spengono gli occhi dei laghi, dei ruscelli, delle pozze, del mare lontano. Se i giovani pittori italiani li conoscessero tutti, potrebbero far a meno d’andar fino in Francia ad adorare Cézanne…

Il vecchio pittore livornese (è nato nel 1825, non nel ’28 come dicono le biografie) [Giovanni Fattori] è seduto sopra una poltrona rossa, vestito di nero; le mani rosee e nodose riposano sulle ginocchia, la favella è piana ed arguta, la memoria pronta, gli occhi neri vivaci e così mobili tra le rughe che pare vogliano districarsene per mostrar bene tutta la gioventù che è nel cuore, i baffi candidi spioventi sul gran mento…Oh le burle e i frizzi del caffè Michelangiolo, cinquanta e più anni fa, sul pizzo del Cabianca, sulla bocca e i denti gialli del Signorini, sugli occhiolini del Rivalta, sul gran naso di Nino Costa, sulla bazza del Fattori! Quel caffè Michelangiolo di cui ha scritto la storia Telemaco Signorini, vide tra il ’48 e il ’70 passare e discutere e predicare, accanto a tutti gli artisti di Toscana, Domenico Morelli e Giovanni Costa, Saverio Altamura e Vittorio Avondo, Capillo Boito e Bernardo Celentano, Enrico Gamba e Federigo Pastoris, Antonio Fontanesi e Alfredo d’Andrade, Giovanni Boldini e Giuseppe de Nittis, Luigi Serra e Achille Vertunni… Ma, si sa, noi siamo in continuo progresso, e guai a dire che un’accolta d’artisti come quella, oggi non la si trova più nemmeno dentro un catalogo d’esposizione.

Il fedele “Giovannino” [Giovanni Malesci] ha portato un pacco di albumetti legati in tela, in pelle, in cartone, li ha disposti sopra uno sgabello davanti al maestro, e questi vi fruga on le mani tremanti, poi me ne apre e me ne porge uno dove belle damein crinolina succedono a soldati col chepì a scappavia e artisti con cappelloni da congiurati fan fronte a zerbinotti dalla tuba altissima, dai capelli gonfi e ricciuti sotto le piccole tese, dai soprabiti a vita con le faldine corte a mille pieghe. Ecco un ritratto di Diego Martelli giovane, grasso,sodo, con la barbetta a punta, e di Maurizio Angioli, il padre di Diego Angeli, con lo stesso gran naso e la stessa eleganza e lo stesso amore per l’arte.

-Lavoravo allora a un quadro che è qui in galleria, rappresentante Maria Stuarda che visita il campo di battaglia di Crookstone in Iscozia e vi trova morto un suo adoratore, e avevo finito in quelli anni di dipingere un’Ildegonda dalla novella del Grossi, e per conto di un inglese un quadro sui figli di non so più che Edoardo strappati alla madre. M’impazzivo a trovare i costume. Pel cappello a piramide della regina avevo fatto fare un bussolotto di latta e ogni mattina lo coprivo di seta e lo ficcavo in testa alla modella. Ma di notte… che vuole, dormivo lì a studio e non possedevo che una sedia, una branda, un tavolino e un cavalletto, e di quello scatolone ben stagnato mi servivo per tutte le occorrenze, senza voler per questo offendere la pittura storica…I francesi così, se arrivarono troppo tardi per salvare la Toscana che s’era salvata da sè, arrivarono in tempo per salvar me dalle regine inglesi. Le avevo appena disegnate dal vero in tutte le pose, che il governo provvisorio e Ricasoli bandivano con un solo decreto (glielo ricordi al ministro dell’Istruzione d’adesso!) i concorsi per due statue equestri di Vittorio Emanuele e di Napoleone, per quattro statue di grandi toscani, per quattro quadri storici, per non so più quanti quadri del Gioberti, del Balbo, del Berchet, del Pellico e del Giusti e per quattro quadri di battaglie sulle giornate di Curtatone, di Palestro, di San Martino e di Magenta… Non resistetti. Presi moglie e partii per Magenta. Sì, presi moglie perchè, vede, per lavorar tranquilli bisogna essere ammogliati. Mi sono ammogliato tre volte e adesso che son vedovo, non so, sarà anche l’età, ma non lavoro più con la lena d’una volta…L’avevo conosciuta a Firenze, mentre c’era il colera. Era bella, coraggiosa, affettuosa. I miei a Livorno erano contenti. Ci sposammo, c’imbarcammo per Genova, e via Magenta a studiare il paese e a volerci bene. Fu il nostro viaggio di nozze…… Continua