L’arno a Varlungo di Odoardo Borrani

IL LINGUAGGIO DELLA REALTA’. Venti capolavori dell’Ottocento italiano

26 dicembre 2013 – 6 gennaio 2014

Le Muse Galleria d’Arte, piazza Silvestro Franceschi, 6

Cortina d’Ampezzo

 

di Silvio Balloni

 

Borrani O. lArno a VarlungoNel 1865 Firenze viene eletta Capitale del Regno d’Italia, e la sua tradizionale atmosfera di quiete serena, dove a sentir Tommaseo “l’ordine, la politezza, la diligenza necessarie alla buona coltivazione de’ campi erano elementi di bello”, sfuma nell’irrompere di una modernità ordinaria e chiassosa, lasciando sgomenti i nostri Macchiaioli, nonché gli intellettuali più eleganti del côté angloamericano, tra cui il poeta Robert Browning, il quale giurò di non rimetter più piede in città. Gli uomini di eletto sentire iniziano dunque a volgere il loro sguardo ai luoghi ameni fuori le mura cittadine, e Borrani, il pittore più lirico e riflessivo dell’entourage macchiaiolo, proprio in quel fatidico 1865 si ritira nella mite campagna suburbana di Piagentina, a sud di Firenze; un luogo magico, dove sotto gli auspici di Silvestro Lega aveva da poco preso vita la celebre ‘Scuola di Piagentina’, e già trasfigurato in sognanti evocazioni letterarie dalla romantica poesia di Alphonse de Lamartine:

Ah, che sarà più dolce / di smarrirsi sotto i rami / dove l’Arno, appena mormorando, lascia ombreggiare le sue acque…L’anima si spande in questi luoghi incantevoli, / riposa sull’erba, respira l’aroma dei fiori / e intravede fra ombre cangianti / screziarsi l’azzurro del cielo di un tramonto senza nuvole…Ma, cosa siete in verità, sponde ridenti, freschi boschi dove l’Arno fa danzare le sue acque?

E in questo clima di incanto, cullato da quel modus vivendi tipicamente toscano, fatto di garbo gentile e placida, tranquilla ferialità, Borrani, come narra Adriano Cecioni, “serio quanto non lo era mai stato” e “lontano da ogni distrazione”, “si diede all’arte con tutta la fede e la passione con che una volta i credenti si davano a Dio”, maturando un perfetto stato di grazia creativa, riassunto in un’arte permeata di riflessione e pensiero, la cui pienezza giunge al nostro sguardo di moderni, con la forza stilistica e l’intensità di una intermittence du coeur, in quello che i documenti hanno tramandato come il suo più alto capolavoro, e che fino allo scorso anno era rimasto inedito: L’Arno a Varlungo, opera decantata dalle fonti come l’unica, tra quelle dei Macchiaioli, capace di mettere d’accordo la critica più intransigente – persino quella dell’incontentabile Signorini – col gusto del pubblico, il quale, in quella primavera del 1868, all’entrata nelle sale della Società Promotrice rimase senza fiato, sentendosi d’improvviso immerso nel vasto dilatarsi di quell’aura morbida, levigata a specchio d’acqua, alitante, quasi un ampio respiro, nel trasalire evocativo del paesaggio, sino a trasmetterci un’intima sensazione di fresco, profondo refrigerio spirituale.

Odoardo-Borrani-vendita-paesaggi-fiorentini

Accade talvolta che un artista riesca, in pochi accenti, a intonare un canto in cui sono racchiuse le note più alte della sua poesia: per Borrani, un simile apice creativo è conseguito nell’Arno a Varlungo, dove sfoggia una tecnica pittorica talmente raffinata da conferire alla sua pennellata la fragranza delle chiome degli alberi, la politezza specchiata dell’acqua, la friabilità delle pareti rocciose, la consistenza velata delle montagne, sfumate dall’atmosfera: nella distesa trasparenza del paesaggio, brillante di riflessi argentati, screziato da cromie fredde e cristalline, la cui tonalità attenuata stimola calma e riflessione, il pittore dilata a dismisura l’invaso del sentimento, e si ha la sensazione che gli argini del fiume si aprano a irradiarne di serenità lo spirito. Solo una paziente, affettuosa esplorazione del tratto fluviale che si snoda in corrispondenza della sua abitazione, gli ha consentito di scoprire, e lungamente meditare, la visuale dove l’Arno si slarga in un’ansa di smalto, a svelare la visuale imponente del Pratomagno, e da cui lo sguardo vola ad abbracciare l’orizzonte. Il pittore, all’epoca in cui realizza questo dipinto, risiede in via Regia Aretina n° 99, e dunque, in linea d’aria, in corrispondenza del punto dove via di Varlungo confluisce in via della Funga, da cui si accede direttamente all’Arno, trovandosi nella posizione da cui la visuale si apre sul Pratomagno, e più da vicino si scorge la Chiesa di San Pietro a Varlungo. Del dipinto si conservano al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi due studi preparatori (inv. n° 1986 P e inv. n° 1201 P), entrambi molto vicini, nella spartizione dello spazio e nel tono sentimentale dell’ispirazione, all’opera compiuta. Dal confronto dei due disegni, risulta che Borrani, rispetto al paesaggio tratteggiato in 1201 P, più rispondente alla reale configurazione del luogo, ha rettificato leggermente l’angolazione che regola le direttrici degli argini, per accentuare il senso di profondità della visione, e suscitare nell’osservatore un maggior effetto di avvolgimento panoramico.
Il lucido smeriglio dello specchio d’acqua, l’intarsio minerale dell’argine, la densità laccata dei volumi, infine l’ampio propagarsi dell’atmosfera, avvolgono la visione in un silenzio ovattato, contemplativo, come se l’artista, consapevole della precarietà di quel mondo così armonico e ordinato, ricco di grazia e semplicità naturale, abbia voluto intonargli una poetica, commovente elegia, capace di riassumere, nel suo espansivo lirismo, il significato intero di tutta una civiltà:
ed è proprio a questo “vagheggiamento ormai nostalgico e pensoso del perituro”, da leggersi come “implicito rifiuto alla diffusione della volgarità moderna” (Carlo Del Bravo), che dobbiamo ricondurre la volontà di isolamento perseguita da Odoardo, quella sua vena di poetica malinconia che rifuggiva gli ingenui intellettualismi dei maîtres à penser del “Gazzettino delle Arti del Disegno”, da cui preferiva distinguersi, in solitaria elezione spirituale, per dar vita a pensieri intimi e non convenzionali, dipingendo i colori del silenzio.
Come abbiamo evidenziato, l’opera rappresenta il vertice assoluto della stagione creativa vissuta da Borrani dopo essersi ritirato a Piagentina – periodo che Cecioni giudica il più felice della sua intera attività – e la sua importanza è subito attestata da Telemaco Signorini, che sul «Corriere Italiano» del 15 aprile 1868, descrivendo la capacità dell’artista di saper infondere un quieto senso di raccoglimento mediante la dolce modulazione della forma e l’ariosa estensione della prospettiva, correlativo oggettivo del suo stato d’animo pacificato, commenta: «Di due suoi quadri, Le primizie e L’Arno, quest’ultimo è per me di molto superiore al primo. Quello che fa il merito principale di questo paesaggio è la scelta del motivo, è la linea simpatica e vasta, è la calma solenne del meriggio, su quelle masse di alberi che vestono le rive, su quelle acque ferme e tranquille che fanno specchio al cielo». Anche Adriano Cecioni giudica il quadro, nel quale si «affermavano sempre più i nuovi princìpi», «fra i migliori dipinti dal Borrani in campagna», e tra quelli che più sono stati capaci di stimolare l’ammirata attenzione degli artisti, come quella del pubblico: ricordiamo, a questo proposito, il giudizio di Ernesta Martelli, contenuto in una lettera inviata al figlio Diego il 29 novembre 1868: «Quel quadro [Le primizie] per i più non sarà interessante, ma è piacevole e ben fatto; quello che mi pare meraviglioso (come a tutti) è quello dell’Arno…».
Da parte nostra vogliamo ancora registrare la metrica calcolatissima della composizione, dove l’osservatore ha la sensazione di essere immerso direttamente nel quadro, grazie alla tessitura di un reticolo prospettico in cui la direttrice dell’argine a sinistra termina dove inizia a salire la montagna, e quella degli alberi a destra segue l’andamento del rilievo montuoso, graduandone il profilo: in tal modo, si viene a creare un effetto di circolarità panoramica, avvolgente, resa ancor più realistica dal punto di vista avanzato al centro del fiume, come se il pittore dipingesse su una barca, fasciato a 360° gradi dal paesaggio: ecco allora che le linee in profondità, convergenti verso il punto di fuga rappresentato dalla chiesa sullo sfondo, sembrano quasi incurvarsi, mentre l’effetto ottico della prospettiva lineare si fonde con quello della prospettiva aerea, per cui la distanza degli alberi e delle montagne è resa sfumandone morbidamente i volumi, e l’altezza del cielo, di un celeste limpido e trasparente, col venarlo di nuvole alonate da tenui bagliori luminosi.
L’equilibrio della composizione si fissa nella rispondenza geometrica dello specchio d’acqua col cielo, i quali definiscono due figure di forma trapezoidale direttamente proporzionali, precisamente sovrapponibili. La densa pastosità dei volumi è delimitata da un nitore grafico capace di fondere levità di definizione e saldezza di intarsio, mentre l’immobilità smaltata dell’acqua, specchio adamantino patinato dal turchese dei monti e dal verde di velluto della vegetazione, svolge una funzione equilibrante, intensificando la compattezza della visione e la sua contemplativa, silente immobilità: e ben comprendiamo, dolcemente naufragando nella calma senza tempo che emana da questa visione, l’effetto quasi estatico, di ipnotico trasalimento, che a tutti, secondo le parole già ricordate di Ernesta Martelli, fece gridare al miracolo.
A dire come in Borrani l’ispirazione affiori soltanto dopo che il suo animo ha intriso di amore i luoghi consueti di un raccolto, intimo meditare, vale la visione trasfigurante di un poeta fiorentino che molto ha amato l’arte dei Macchiaioli, Mario Luzi: “Prepara il suo settembre l’Arno, / entra nelle sue discrete ombre, gira, / s’infrasca, si sofferma / – pare – / ma fluisce, / sé oltre da sé, / il suo opaco luminoso andare / per luoghi che l’attendono / – vieni, non ci mancare – / però non lo trattengono, / lo guardano passare / i paesi, le pergole, i vigneti. / Li conforta / non lui, il moto suo / in quel loro forte stare / nell’ordine universo, certi / assolutamente nel creato.