di Mario Platero, da Il Sole 24 Ore,  8 febbraio 2014

C’è la grandezza della mostra. Unica, sette sale del Metropolitan Museum allestite per spitare in ordine cronologico la collezione cubista di Leonard Lauder promessa in donazione al Museo: 81 opere, 34 di Pablo Picasso, 17 di George Braque, 15 di Juan Gris e 15 di Fernand Leger, di un periodo compreso tra il 1907 e il 1918. Una passeggiata nella storia del movimento che ha rivoluzionato il mondo dell’arte creando i presupposti per il modernismo, l’arte astratta e tutto quello che sarebbe seguito nel Novecento.

La mostra è unica perchè è una delle più complete al mondo, perchè ci racconta nel dettaglio la svolta di Braque e Picasso, perchè ci mostra l’eccitazione e l’evidenza della loro complicità nell’aprire la nuova frontiera e il passaggio dai toni mnocromatici al colore. Ma nelle sale del Met c’è anche la storia di una collezione e di un collezionista. Di un uomo che ha dedicato 35 anni alla ricerca certosina di opere che, come ci ha detto lui stesso, avrebbero passato “l’esame dei curatori di un museo. Mi chiedevo: la prenderebbero?”.

Soprattutto con questa mostra si scrive un capitolo importante nella storia della filantropia americana perchè Leonard Lauder, presidente emerito di Estee Lauder, ha sempre saputo che la sua collezione cubista sarebbe stata donata e sarebbe andata a un museo. Per preservarla. Per evitare che potesse essere smembrata, venduta a pezzi, come è successo ad altre collezioni cubiste, la Cooper ad esempio, da cui ha comprato molte opere, o quelle di Gertrude Stein, di Raoul LaRoche, di Reber. “Ho sempre avuto una motivazione di fondo nel mettere insieme la mia collezione :far sì che restasse integra per poterla condividere un giorno con i giovani artisti e il pubblico, di modo che il piacere che provo a vedere questi quadri sulle mie pareti, potesse essere il loro”.

Le parole di lauder non sono solo lo specchio di sentimentalismo o di retorica facile, come spesso ci capita di sentire in Italia in dibattiti che riguardano le donazioni e le “non profit” in America. “Lo fanno per poter aumentare il valore delle loro altre opere” dice qualcuno. Ma il comune denominatore della filantropia americana è un altro, è quello della “restituzione” e del piacere della condivisione. Anche se, come in questo caso, il valore della collezione è stimato fino a 1,5 miliardi di dollari. C’è chi insiste nello spiegare questa generosità con la possibilità di ingenti deduzioni fiscali. Fino a un certo punto: perchè anche se il risparmio fosse del 50% ci sarebbe comunque, in questo caso, una differenza di 750 milioni di dollari per gli eredi. Ma quasi certamente avrebbero dovuto vendere.

Il primo elemento chiave della filantropia americana, di questa filantropia di cui ha beneficiato il Metropolitan è dunque quello di un altruismo disinteresato, di cui Lauder è certissimo: “Non ho mai comprato un quadro pensando di fare un investimento, l’ho sempre comprato pensando di poterlo aggiungere alla collezione , per il piacere di averlo, per poterlòo studiare”. Perchè al Metropolitan? “Perchè è il più grande museo del mondo – ci ha detto ancora – perchè è a New York. E a New York sono nati i miei genitori, sono nato io, i miei figli e i miei nipoti. Perchè a New York la nostra azienda ha avuto il successo che ha avuto. Perchè sono grato a questa città e dunque mi sembrava giusto restituirle qualcosa”.

La donazione in questo caso, segna anche un passaggio epocale per il ruolo del Metropolitan nell’arte moderna. Il balzo in avanti è straordinario. Ci saranno per anni dibattiti e confronti fra la collezione di Lauder e quelle cubiste del MoMa, dell’hermitage a San pietroburgo e del Pompidou a Parigi. Di certo la promessa della donazione e la mostra in corso adesso (da vedere) ha dato al Metropolitan un ruolo di primissimo piano, che prima non aveva nell’arte moderna. Ma la filantropia, l’idea di una rinuncia in nome di una condivisione, viene dopo la collezione. Prima c’è la molla che spinge una persona ad avvicinarsi al mondo dell’arte, ad esplorarlo a raccogliere  qualcosa più per il sentimento, per il valore  intellettuale che per quello materiale: “Chi compra per rivendere è un mercante, non è un collezionista” dice anche Lauder.  Il corollario  è che ci vuole passione, ci vuole quasi “una malattia, un’ossessione” osserva. Ma ci vuole anche  “l’aiuto di persone fidate, la visione, la conoscenza della storia  (che lui ha ndr) che fa da contorno sociale all’opera  che cerchi e che la immerge nel contesto sociale e culturale del suo tempo”.  E’  questa la tesi che ci esprime Lauder  in uno degli incontri che abbiamo avuto con lui prima  e dopo l’apertura della sua collezione al pubblico lo scorso ottobre.

La storia del collezionismo di Lauder parte da quando era bambino. Da quando aveva setto o otto anni e aveva cominciato a raccogliere cartoline. Le cartoline che raffiguravano gli alberghi Art déco di miami, quelle che gli mandavano i genitori. Poi, più avanti, si fa più esigente. Comincia a visitare mercanti e un altro collezionista, anziano,  un membro del Metropolitan Post Card Collectors Club gli spiega quali fossero le qualità importanti per capire  se una  cartolina fosse più interessante delle altre.  Si doveva metterle in contesto, gli deceva, cercare il numero di serie, identificare la qualità della stampa. “Ero affascinato – ricorda- ho capito in quel momento l’importanza del dettaglio e di appoggiarsi a degli esperti”. A volte potevano essere i mercanti con cui Lauder ha lavorato, che distingue in due categorie, quelli che sono dei buoni venditori, e quelli che sono bravi insegnanti e veri intenditori: “Io preferisco quelli che hanno entrambe le qualità”. Un buon collezionista deve avere un rapporto stretto con i mercanti. Deve pagare subito ed essere di parola. E deve evitare che alcune opere siano offerte ad altri prima che a lui Cosa che a volte è successa lasciandolo con l’amaro in bocca.

Lauder si avvicina all’arte grazie a un’altra passione che si sviluppa più avanti, il cinema. Da ragazzo andava al MoMa per vedere dei film d’essai, ma poi si fermava, o arrivava prima per vedere alcune opere del museo. Le sue passioni, Van Gogh, Notte Stellata, o la Persistenza della memoria di Dalì e molti altri. Ma ne amava una in particolare, la Scalinata di Bauhaus di Oscar Schlemmer, del 1932. E’ così che si avvicina all’arte, frequenta altri collezionisti e mercanti sia americani che europei. Acquista le sue prime opere importanti da Serge Sarbanski, dei disegni di Klimt e delle Gouaches di Egon Schiele, visita la Galleria di Norbert Kettere a Campione d’Italia e lì c’è una svolta: trova lo studio finale della Scalinata di Bauhaus di Schlemmer.  Ha un’emozione per i ricordi di quando era ragazzino al MoMa e sa che deve averlo. Diventa un desiderio irrefrenabile. Dopo compra un’opera importante di Klimt, il panorama di una vallata con una collina e un fiume. Allora l’artista non era ancora conosciuto come oggi e i prezzi erano abbordabili. Poi l’avventura nel cubismo.

Trova da Sotheby’s , un acquarello di Leger. E’ il 1976. Nel 1980 acquista il suo primo Picasso, Caraffa e Candela, è a quel punto che decide di voler aggiungere altre opere a Picasso (“così quel quadro era troppo solo” dice) e acquista Il Nostro Avvenire è nell’Aria sempre di Picasso.  Non lo capiva molto ma lo amava tanto. Poi per caso si trova a una conferenza dello storico dell’arte  Kirk Vernedoe.  Fra le diapositive che mostra parlando di cubismo fa vedere Il Nostro Avvenire, ne mette in envidenza numerosi elementi spiegando perchè è rappresentativo del passaggio fra il Cubismo Analitico e quello Sintetico. “Per me fu una rivelazione, in ognuno di questi quadri c’era un dettaglio,  un significato nascosto che sentivo il bisogno di studiare”. Così nasce la decisione di concentrarsi sulla collezione che oggi è esposta al Metropolitan. Ma Lauder ha bisogno di un partner, di un curatore che lo aiuti nella ricerca e nell’analisi.

Chiede consiglio a Varnedoe che gli suggerisce Emily Braun, una giovane laureata dell’Istituto dell’Arte. E’ il 1987 e da allora hanno lavorato insieme al completamento  (“ma non si finisce mai, comprerò ancora”) di questa collezione. E’ la Braun ad aver curato la mostra al Met, con l’aiuto di Rebecca Rabinow, la curatrice del museo. Il Met ha deciso di creare con l’aiuto dello stesso Lauder e di altri donatori il Leonard Lauder Research  Center for Modern Art. Ci saranno ogni anno due borse di studio biennali per ricercatori post e pre dottorato  che si dedicheranno a ricerche originali sull’arte moderna. Il catalogo della mostra diventerà uno dei classici per studiare il periodo.  Eppure un blogger  più furbo degli altri ha scritto: “Basta avere soldi e passeggiare per Madison Avenue  e si può mettere insieme la stessa collezione”.  Lauder sorride.  Un lavoro di decenni come il suo non potrà mai essere duplicato  per qualità e completezza  con una passeggiata per Madison Avenue. E anzi la sua collezione risponde in silenzio alla superficialità, al clamore e alla volgarità che spesso si accompagna a che dispone di mezzi, ma non di prospettiva storica e culturale.  Ma la genialità di Lauder  è anche nell’aver lanciato un messaggio agli altri filantropi e collezionisti: separarsi da un’opera per il bene comune può essere di grande soddisfazione.  La ratifica  di questo suo messaggio  è chiara  nel resoconto del severo critico del “New York Times”, Michael Kimmelman: “Lauder non ha imposto  nulla al museo e questo implica una purezza d’intenti. Altri donatori  hanno chiesto che le loro opere fossero mostrate sempre insieme. Il dono di Lauder al Met è più per le prossime generazioni di curatori, per gli appassionati d’arte che per il suo autocompiacimento. Sarà la stessa arte, donata senza condizioni, a garantire che il suo nome resterà vivo”.