Di seguito riportiamo la prima parte del ritratto di Telemaco Signorini fatto da Ugo Ojetti nel volume “Ritratti d’artisti italiani” nel 1911:

 

Fiore all’occhiello, guanti chiari e mazza in mano, un paltò corto e largo color nocciola con le cuciture doppie e due spacchi sui lati, da fantini inglese, calzoni rimboccati, in capo una tuba lucida per grande travaglio di spazzole e di fiato, in bocca un mezzo avana sempre spentoper economia, sul naso un po’ camuso gli occhiali a stanga che scendevano sempre più giù degli occhi tanto che salutandovi per via egli vi guardava a scancio e per parlarvi spingeva avanti la faccia e alzava le sopracciglia fino a metà della fronte, una barba bionda e bianca leggera e ricciuta che aperta sul mento accentuava la mascella prominente e ostinata, nell’ampia bocca ogni sorta di denti in ordine sparso, grandi e piccoli, bianchi e gialli, dominati da una zanna cariatide che chiameremo dente, come gli diceva Renato Fucini in una delle sue indiavolate lettere da Vinci inedite per forza, un aspetto imbronciato che si schiudeva in un sorriso festosissimo per pochi amici degni e scintillava tutto d’una arguzia spietata appena poteva contemplare la serena beatitudine d’un imbecille: questo era Telemaco Signorini, e questo è nella memoria di chi l’ha amato e di chi l’ha odiato, indimenticabile.

A quarantadue anni, in principio dei novantanove sonetti che egli intitolò Le 99 discussioni artistiche e firmò, con un anagramma del suo nome, Enrico Gasi Molteni, diceva di sè stesso:

E vo per la mia starda e al mio mulino

tiro l’acqua e vo innanzi il più che posso,

nè domando a nessuno il mio cammino.

Mangio ogni giorno, senza avere addosso

la livrea di nessuno, e non m’inchino

a chi mi tirerebbe in qualche fosso.

E così andò avanti, lavorando notte e giorno per sessantacinque anni, diritto, libero e povero, sincero fino all’insolenza, affettuoso fino al sacrificio, leale fino allo scrupolo, lindo nella coscienza come negli abiti, critico di sè stesso prima che degli altri, non ambizioso d’altro che dell’arte sua. Quando il partito radicale fiorentino, sapendone le idee liberalissime, pensò di portarlo candidato al Consiglio comunale, egli rispose netto: “Negato come sono ad intendere la più semplice questione di gestione amministrativa, non potrei con coscienza votare pro o contro ciò che non intendo, senza diventare dannoso o ridicolo. Nelle questioni dell’arte nelle quali potrò avere qualche competenza, sono talmente agli antipodi con le idee di tutti i miei colleghi da rinunziare, come sempre ho fatto, a qualunque carica sociale anche nel Circolo artistico del quale fo parte. Io sono un solitario, la vita pubblica mi ripugna, e tanto mi sento contrario a quel che si fa nel mio paese che io non intendo sacrificare il mio tempo che tutto ho dato all’arte mia, per gl’interessi di un paese che nulla ha fatto per l’interesse mio”.

Morì a firenze il 10 febbraio del 1901, d’arteriosclerosi. V’era nato il 18 agosto del 1835 da Giovanni di Lorenzo Signorini e da Giustina di Giuseppe Santoni. Dal 1865 teneva studio al pianterreno del numero 12 di piazza Santa Croce. Anche suo padre era stato pittore e aveva avuto il suo studio vent’anni prima sulla stessa piazza. Il Granduca lo aveva molto protetto. Pel Granduca, Giovanni Signorini aveva dipinto molti di quei quadretti di vedute e di feste e di costumi fiorentini che sono uno dei più preziosi documenti ora raccolti nella casa di Michelangelo dal Museo topografico fiorentino; e nel 1847 aveva dipinto per lui anche quadri patriottici. Ma dopo la restaurazione e la reazione del 1849 rifiutò d’andare a riverirlo, anzi mise alla porta il Duprè e il Pollastrini, amici e colleghi suoi, che avevano fatto tanto facilmente quella riverenza. E anche un fratello di Telemaco, Egisto, nato nel 1832 e morto nel 1851, era stato pittore e aveva esposto nel 1850 alla Promotrice di Firenze un Arresto del conte Ugolino. Soltanto dopo la morte di lui fu permesso a Telemaco di lasciare le scuole degli Scolopi e di darsi definitivamente all’arte – all’arte e alla politica, due cose che nei giovani d’allora andavano d’accordo come non sono andate più mai. Leggere Mazzini e Proudhon e andar in campagna a studiar sul vero invece d’andare all’Accademia, erano due ribellioni che al Signorini e ai suoi compagni d’età e di fede sembravano una ribellione sola. E ai compagni d’allora egli serbò fede tutta la vita: erano, per dir siolo degli artisti, Odoardo Borrani, Stanislao Pointeau chiamato dagli amici Puntacqua, Alessandro lanfredini, Augusto Arnaud francese d’origine e tanto elegante che si vantava d’esser perfino nato in carrozza valicando il Cenisio, Giovanni Fattori, Vincenzo Cabianca, Vito d’Ancona, questi tre di otto o dieci anni più vecchi di Telemaco. In Accademia non andava che per disegnar dal nudo e tormentare i ben pensanti.

-Te l’ha insegnato il professor Paganucci il nome di questo muscolo? – e l’indicava col gesto.

-M’hai rotto…, – borbottava lo scolaro sottomesso.

– Non bestemmiare, chè l’Ispettore ti mette alla porta.

-Addio! – l’altro ribatteva più tragico d’un quadro storico.

– Addio, pipi, …, – concludeva dolcemente il Signorini guardandolo da sopra agli occhiali. “Pipi” era lo scherno preferito da lui e acquistava valore dalla smorfia di commiserazione con cui l’accompagnava.

Vito d’Ancona era il ricco della compagnia. Telemaco lo conobbe nel ’56 perchè aveva lo studio vicino al suo, in via della Pergola, sulla cantonata di via Nuova, in uno stabile dai cui tetti si vedevano le finestre e le terrazze di tutte le ballerine e figuranti del teatro lì accanto. E fu Vito d’Ancona a fargli leggere Balzac e Porta, a mettergli addosso quella mania di viaggiare che non lo lasciò più in quiete finchè visse e che cominciò nello stesso anno 1856 col viaggio di Venezia dove il Signorini vide le feste per la nascita del figlio dell’Imperatore d’Austria, conobbe il Gamba di Torino, il molmenti professore di quell’Accademia, l’Aleardi, il Maffei e lo scrittore d’arte Pietro Selvatico e Domenico Morelli  e Frederick Leighton e Tranquillo Cremona e Alfonso Balzico, e visse con loro tra il solito pranzo alla trattoria della Bella Venezia e il solito caffè condito di discussioni al Florian, e lavorò tutt’il giorno e preparò gli studi per quel Ghetto di Venezia che cinque anni dopo esposto a Torino e poi a Firenze parve ai pacifici buongustai toscani più una rivoluzione che una rivelazione. Di tutto dava notizie a suo padre in lunghe lettere firmate “suo umilissimo figlio”, e specialmente delle cose d’arte e delle proprie condizioni economiche: “Questa sera si apre il teatro della Fenice col Guglielmo Tell, e dopo cogli Ugonotti. Ma io lo vedrò una volta sola perchè tre svanziche di biglietto son troppe”. Ma, come sempre, ordinato e prudente, aveva arrivando affidato al d’Ancona dieci francesconi per aver, in ogni caso, tanto da tornare a casa. Nel 1858 suo padre stesso lo condusse con sè a Genova, a Torino, a Milano, a Bresciae ancora a Venezia. Ma l’anno dopo venne la guerra.

Tutti i suoi amici erano in fiamme, a Firenze, a Pisa, a Livorno, e s’incitavano l’un l’altro e non volevano che uno solo di loro restasse a casa. Beppe Sacchetti, il padre del nostro feroce e preciso caricaturista Enrico Sacchetti, scriveva al Signorini da Livorno: ” Fai leggere la presente a Enrico Nencioni, e se non viene con noi, non è più Enrico ma la sua ombra. Addio. Viva l’Italia!”. Telemaco si arruolò nell’artiglieria toscana e fece la campagna al quinto pezzo della batteria sotto il comando del colonnello Mosel e del capitano palmieri, ma non gli fu dato di combattere. Il 26 luglio del 1859 scriveva al padre: “Dopo Goito e Volta Mantovana dove siamo stati lì lì per far fuoco e dove ho veduto grandi cose, fu concluso l’armistizio. Siamo partiti da Volta per Solferino campo della formidabile battaglia combattuta valorosamente e vinta dai nostri italiani. Il campo era ancor pieno di cadaveri, di caschi, di pezzi d’armi, d’alberi troncati alle palle e dai cannoni. Il sole tramontava in quel momento che noi passammo per mezzo a quella scena tristissima, e l’impressione che ricevei fu tale che non la dimenticheròfinchè vivo…Dica alla mamma che il suo bel figlio Telemaco tornerà vittorioso  senza aver sparato il cannone, cosa che la consolerà di molto ma che consola pochissimo me”. E dovè fermarsi a Modena in guarnigione, deluso e insofferente sebbene lì a Modena ritrovasse tra i soldati e i volontari tanti toscani, scrittori ede artisti, soddisfatti almeno delle notizie che giungevano da Firenze: Yorick, Diego Martelli, Gustavo Uzielli, Adriano Cecioni, Odoardo Borrani. Un po’ di svago e d’entusiasmo fu portato dai profughi veneti: “Saranno due o trecento al giorno. Bisogna vedere questi disperati la sera nella nostra fortezza cantare a gola spiegata inni nazionali e  voler sempre in mezzo a loro noialtri toscani con una simpatia veramente italiana… In tutto il Veneto non si trovavavno più che vecchi, ragazzi e donne. Ma anche un’infinità di donne hanno arrestate”. Quando apparve Garibaldi, riapparve la speranza: “Sì, sono ordinanza al generale Garibaldi, – scriveva il 26 agosto, – e ho avuto il piacere di vederlo trevolte passare per il salone e il piacere di ricevere un ordine da lui medesimo. Se prima ognuno pensava al congedo, ora non si trova nessuno che lo voglia e si sente dire per tutto: “se il generale Garibaldi ha preso il comando della nostra armata è segno che la guerra è vicina, vinceremo o morremo”. Ma la guerra era finita. Poichè agli studenti era più facilmente rilasciato il congedo, il padre ottenne dallAccademia fiorentina un certificato per Telemaco. “Mi par mille anni di tornare non fosse altro per potermi  cambiare gli abiti militari che son pieni zeppi di lotume. Anzi vi avverto che appena tornato andrò di corsa a fare un bagno perchè il vostro figliolo è pieno di pidocchi fino ai piedi…”.

E tornò e si lavò e si quietò; ma la nostalgia di quei luoghi, appena a Firenze, fu tanta che l’anno dopo volle rivederli, armato non più di un fucile ma di una matita e di pennello, e rivide Modena e Brescia e Solferino e San martino e, per quel suo aspetto di straniero che a Firenze e al caffè Michelangelo lo soddisfaceva tanto, fua pozzolengo arrestato nientemeno che come spia dell’Austria, e solo a Brescia dove era andata la sua batteria, fu riconosciuto e liberato e potè dopo una gita a Milanoe a Torino, raggiungere a spezia Vincenzo Cabianca e Cristiano Banti che l’aspettavano dipingendo. Percors tutta la Riviera, dipinse o preparò le Pescivendole di Lerici, le Acquaiole di Spezia, la Campagna presso il forte dei Marmi. Ma appena a Firenze ricominciò i quadri di soggetto militare: l’Alto di granatieri toscani a Calcinatello presso brescia, l’Artiglieria toscana a Montechiaro salutata dai francesi feriti a Solferino, la Cacciata degli austriaci dalla borgata di Solferino, che fu esposto nella prima e grande esposizione italiana di Porta al Prato, presieduta dal principe di Carignano e inaugurata il 15 settenbre del 1861 con un discorso di re Vittorio Emanuele e con l’inno di Goisuè Carducci alla Croce di Savoia musicato da Carlo Romani.

Quelle tele patriottiche furono sette, ne vendette sei, ma non le amò. Forse non le amò perchè le vendette. Del successo facile e immediato egli diffidò sempre. Come da vecchio agli amici che vedendolo in bisogno (certo non lo diceva lui o lo diceva allegramente come fosse un segno di giovinezza persistente…) gli conducevano allo studio un compratore, egli dichiarava amaramente: – Compra per far piacere a me, non perchè il quadro faccia piacere a lui, – così allora sentiva che più della pittura in quelle tele i compratori ammiravano il soggetto. E invece egli voleva che non il soggetto simpatico ma il pittore e l’arte fossero ammirati, magari nonostante il soggetto antipatico, come venivano predicando i realisti più dogmatici. Quando mandò a Milano all’Esposizioone di Brera l’unico di quei sette quadri rimasto invenduto – l’Alto dei granatieri toscani –  e si vide subito comprare anche quello dagli artisti del Circolo e arrivare una lettera di lode firmata dall’Induno, dal Pagliano e da altri di quelli artisti, non dubitò più: cambiò mestiere e tornò coraggiosamebnte alle Pescivendole di Lerici, alle Acquaiole di Spezia e al Ghetto di Venezia che non si vendevano e ai suoi prediletti studioli dal vero che, secondo la moda venuta dalla Francia e dal Courbet, egli e i suoi compagni solevan dipingere sui fondi delle scatole da sigari. Pochi anni dopo, scrivendo d’un quadro patriottico dell’Ademollo nel suo Gazzettino  delle arti del disegno, diceva francamente: “Tutti questi esempi d’amor patrio in pittura mi son venuti un po’ a noia perchè non trovo un gran merito a fare i quadri liberali quando non v’è pericolo e quando son liberali perfino i codini. Mi pare che quest’arte faccia la corte a tutti come le donne pubbliche, mentre che, se l’arte ha uno scopo, è certamente quello di precedere non di seguire i tempi”.

E aggiungeva, a proposito della fertilità e della facilità dell’Ademollo, questa sentenza capitale: “Quando un artista si lascia trasportare da questa facilità, per me non lo stimo quanto quello che conosce la propria e la domina”……………. (continua)